Orbanizzazione


 

C’è una parola che negli ambienti internazionali dell’informazione torna con preoccupante insistenza quando si parla di Italia: “Orbanizzazione”. Il termine, mutuato dall’esperienza ungherese sotto Viktor Orbán, descrive il progressivo soffocamento del pluralismo mediatico, la normalizzazione della propaganda governativa e l’erosione sistemica della libertà di stampa (e non solo). 

Ora, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Reporter Senza Frontiere, l’Italia si starebbe incamminando a grandi passi lungo questa traiettoria, guidata dalla mano ferma della premier Giorgia Meloni.

Il dossier, redatto con linguaggio inequivocabile, non lascia spazio a interpretazioni: “I governi italiani hanno storicamente cercato di esercitare influenza sul servizio pubblico, si legge, ma l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni ha introdotto una pressione senza precedenti, sistemica e aggressiva”. Una metamorfosi comunicativa definita “a megafono”, dove ogni voce dissonante viene neutralizzata o ignorata, mentre quella dell’esecutivo riecheggia ovunque, senza contraddittorio.

Il fulcro del rapporto è l’informazione pubblica, in particolare la RAI, oggi è ribattezzata dagli addetti ai lavori “Tele-Meloni”. 

Un nome che sintetizza la percezione crescente di una macchina mediatica divenuta cassa di risonanza dell’agenda di governo. 

Nella sola prima metà dell’anno, si contano numerosi episodi di censura preventiva, licenziamenti sospetti e spostamenti strategici nelle redazioni centrali. 

Il caso più eclatante riguarda il programma d’inchiesta “Report”, storicamente inviso a gran parte della classe politica, ma ora oggetto di un vero e proprio attacco istituzionale.

Dai vertici RAI, infatti, sarebbero partite pressioni dirette per ridurre il peso e la libertà d’indagine del programma, spesso scomodo per gli equilibri di Palazzo Chigi. A ciò si sommano le querele seriali intentate da esponenti di governo nei confronti di giornalisti e opinionisti critici, in un meccanismo che ricorda da vicino la strategia dell’intimidazione giudiziaria già vista in altri paesi dell’Est Europa.

La volontà della prima ministra di non accettare il contraddittorio, e molto altro, ha indotto l’Osservatorio Balcani e Caucaso, in un recente intervento, di parlare di “un’involuzione che rischia di isolare l’Italia dai modelli di stampa liberale europei”. 

In parallelo, l’Unione Europea sta esaminando l’impatto delle recenti nomine RAI sul rispetto della Direttiva sui Servizi di Media Audiovisivi, con la possibilità, se il trend dovesse proseguire, di aprire una procedura d’infrazione.

Il quadro è aggravato da un’anomalia storica tutta italiana: il doppio canale mediatico, pubblico e privato, in cui gran parte dell’informazione è concentrata nelle mani di pochi soggetti politicamente allineati. 

Con Mediaset ancora saldamente ancorata all’orbita del centrodestra, e la RAI sempre più filo-governativa, lo spazio di pluralismo si riduce giorno dopo giorno, mentre le piattaforme indipendenti lottano per sopravvivere a tagli, disintermediazione e delegittimazione.

In un Paese dove la libertà di stampa è sancita dalla Costituzione ma calpestata nei corridoi della politica, la domanda che emerge con urgenza è: quanto è ancora libera l’informazione in Italia? E fino a che punto si può parlare di democrazia compiuta, quando chi detiene il potere seleziona anche le domande che gli possono essere rivolte?

Nel silenzio degli schermi e nella timidezza delle redazioni, la risposta rischia di arrivare troppo tardi.

SalVitSantangelo 

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